“Il più evidente segno del cambiamento in atto, apparso agli abitanti delle sue sponde come uno sfregio di straordinaria violenza, fu il rendersi conto che il lago si colorava di verde, di azzurro, e di altri colori vivi: era il suo modo di reagire alla spropositata immissione di liquami dalle fabbriche e dalle fognature dei paesi da poco costruite. Gli esperti spiegavano che si trattava delle eccezionali fioriture delle alghe microscopiche che il fosforo, contenuto nei detersivi, alimentava a profusione. Ma l’impressione comune era di un lago che resisteva scrollandosi di dosso le impurità versate, che protestava a suo modo delle prepotenze umane, come l’asino che si libera con un’impennata del carico troppo pesante che gli era stato imposto; nessuno in cuor suo dubitava che, passato questo momento di confusione, il lago sarebbe tornato quello di prima.”

Ernesto Giorgetti – C’era una volta un lago – Macchione Editore

Una delle maggiori difficoltà nel comprendere i meccanismi che regolano un ambiente naturale è la scala dei tempi. Di solito non abbiamo la pazienza di aspettare e ricerchiamo le cause di un qualche fenomeno che ci colpisce o ci turba direttamente in quelli che immediatamente lo precedono: mi è venuto mal di gola (oggi) perché ho preso freddo (ieri sera).

Esiste in realtà in natura, soprattutto nei sistemi complessi come il nostro lago, un tempo che io chiamo di propagazione che, più è lungo, più ci fa perder di vista le cause primarie; detto cioè in altro modo, che non ci fa ben comprendere gli effetti nel tempo di un intervento puntuale come ad esempio l’ingresso di una nuova specie di animali o di piante, o ahimè continuativo come l’immissione anno dopo anno degli scarichi fognari.

Il sistema lago, lo abbiamo già detto, nel suo complesso punta sempre alla vita, infischiandosene delle vere e proprie battaglie che le varie specie animali e vegetali conducono per la sopravvivenza e dimenticandosi in breve tempo di quelle che scompaiono: del resto già Brenno ci ammoniva con il suo “vae victis” (guai ai vinti). La lotta per il nutrimento e per la riproduzione vale del resto anche nel regno vegetale e così il lago da un punto di vista delle alghe e delle piante acquatiche è dunque inesorabilmente mutato, e sta mutando, a ricercare anno dopo anno nuovi equilibri. Che qualcuno quest’anno ha visto una sola pianta di castagna d’acqua (trapa natans)? Eppure negli ultimi anni la sua estensione (diversi km quadrati) ci aveva preoccupato oltre modo.

Ma ancora una volta iniziamo dal piccolo. Le alghe unicellulari nel nostro lago e sui titoli da moribondo o da funerale dei giornali locali la fanno da padrone da oltre quarant’anni. A loro tuttavia va il merito di aver contribuito a mantenere, nei momenti più difficili, una produzione di ossigeno tale da garantire comunque la sopravvivenza della vita animale. Qui da noi ne troviamo di molti tipi che a me piace immaginare appartenere a due gruppi principali ed in qualche modo antagonisti: quello delle alghe verdi e quello delle cianoficee di colore blu, rosso e marrone scuro. In una specie di lotta si contendono lo spazio vitale ed i nutrimenti alternandosi nelle stagioni a seconda delle condizioni esterne. La forte luce infatti favorisce le prime e così all’inizio della primavera le vediamo subito comparire in gran numero a colorare le nostre rive ed il lago tutto. Per un breve periodo a fine marzo battono in ritirata quasi completamente, in concomitanza dell’esplosione della vita delle altre piante sulle rive (la lotta nutrimento vale anche per loro) regalando al sole, proprio nel periodo di frega dei pesci persici, la possibilità di scaldare in profondità e rimettere in moto il meccanismo vitale della destratificazione. Ritornano puntuali, più agguerrite e numerose qualche settimana dopo, forse a causa di un rallentamento dell’assorbimento delle sostanze nutritive da parte del resto delle piante, o della rimessa in circolo delle sostanze presenti sul fondo (effetto della destratificazione) o più probabilmente a seguito di qualche pioggia primaverile che risveglia il meccanismo degli scolmatori del collettore.

Le cianoficee si sviluppano invece un po’ più tardi rubando lentamente spazio alle alghe verdi. A loro la luce diretta però non grada e le vediamo così in estate muoversi sulla colonna d’acqua durante il ciclo giornaliero del sole. La mattina e la sera in superficie regalano al lago le loro colorazioni da conquistatore, durate il giorno pieno invece, di certo per qualche fenomeno di contrazione cellulare che le fa diminuire di volume e quindi appesantire rispetto all’acqua, scendono in profondità. Ancora una volta donando, quasi inaspettatamente, un po’ di trasparenza al lago innescano di nuovo e per poche ore al giorno i meccanismi vitali dei raggi del sole verso il fondo. A contener loro il primato, o forse più correttamente a usufruire di un nutrimento disponibile in quantità ma posizionato in una forma diversa, troviamo le piante acquatiche radicate sul fondo.

La castagna d’acqua abita il nostro lago da poco più di un secolo: era stata infatti immessa nelle zone di Capolago per un utilizzo alimentare del suo frutto. Cresce sui fondali molli di tutta la sponda sud del lago (da Capolago fino a Cassinetta) propagandosi, anno dopo anno attraverso il radicamento del frutto, fino ad una profondità massima di tre, quattro metri. Il suo intricatissimo groviglio di radici (che dal fondo legano le foglie in superficie) rende difficilissimo il ricambio delle acque stesse e il suo cappello di foglie blocca qualsiasi movimento in superfice, surriscaldando l’acqua di parecchi gradi sotto il sole estivo. Ne risulta quindi un ambiente abbastanza ostile alla vita dei pesci che seppur riescono a trovar una forma di riparo dai predatori mal sopportano le condizioni di poco ossigeno che l’acqua stagnante e calda regala.

Quest’anno, ancora una volta a dimostrazione del delicato equilibrio che lega una specie alle altre e a tutti gli altri attori che giocano sul lago: animali, clima, temperature, venti, scolmatori ecc..,  come dicevo è magicamente sparita.  Al suo posto troviamo il Myriophyllum che chi frequenta i porticcioli o ha ancora la passione del giretto in barca ha sicuramente notato come una estesissima prateria sommersa che da riva si spinge verso il lago aperto per diverse decine di metri. Di sicuro presente in modo latente da qualche anno, ha approfittato di condizioni più favorevoli per anticipare la sua crescita primaverile, accaparrarsi nutrimento e spazi (ricordate la curva di crescita ad “esse”?) e prevalere così sulle altre specie.

Sul canneto, per spostarci con il ragionamento verso le rive, si sa in realtà poco e la letteratura che se ne occupa è avara di informazioni tanto che alcuni termini dialettali, nati per necessità di dialogo fra i pescatori per spiegare alcuni dei fenomeni evolutivi dell’apparato radicale di questa bellissima pianta, non hanno una traduzione in italiano (termini come “baltic” e “mutun” che raccontano di intere isole galleggianti, formate dalle radici e dalle canne cadute, in grado di sostenere la crescita di boschetti di  ontani e salici). Il canneto ha il ciclo vitale annuale che tutti noi, attenti osservatori delle bellezze e dei colori del lago, sappiamo descrivere che lo vede rinascere in primavera anno dopo anno e incendiarsi di colori in autunno. Ma ne ha anche un altro, lungo circa 60-70 anni che si rende evidente solo a chi si ricorda di com’erano le rive una cinquantina di anni fa. Il canneto infatti, ora ridotto di spessore allora si estendeva verso il lago per oltre un centinaio di metri. Al suo interno fra le canne, sopra e sotto, un’esplosione di vita: dagli insetti e dagli uccelli che al riparo dal vento e dalla vista potevano nidificare, ai pesci che al di sotto godevano di cibo abbondante e protezione dai grossi predatori. I pescatori di anno in anno realizzavano al suo interno, tagliando in profondità le canne con un attrezzo simile ad una falcetto ma con un manico sufficientemente lungo, dei percorsi che favorivano il ricambio dell’acqua e l’accesso dei predatori fino alle aree libere che spontaneamente nascevano in mezzo al canneto stesso. In queste aree fiorivano le ninfee e i nannuferi e al di sotto trovavano riparo un’enormità di pesci. Di questo canneto giovane e vivo non rimane che un ricordo, striminzito e relegato sulla terra ferma com’è ora. E di certo i cambiamenti del modo di vivere degli uomini non gli hanno giovato (mi riferisco all’utilizzo delle canne secche nell’edilizia, alla pratica di ridargli per così dire energia vitale, incendiandolo nelle sere ventose d’inverno…).

Infine (ma solo in questo racconto, non me ne vogliano gli studiosi) le ultime arrivate: il fior di loto e la ludwigia. Lascio a chi si occupa di queste cose raccontare del loro effetto alieno ed invadente, dannoso così dicono per la flora nostrana. Perdonatemi ma a me piace pensare che in fondo in natura le cose belle hanno pure un’utilità (forse ricordando un noto progettista di aeroplani che diceva che “se è bello, di sicuro vola”). E continuo a guardare all’azione fitodepurativa del fior di loto e alla sua capacità di dar vita a enormi ombrelli in grado di dar rifugio ai pesci e di garantire nel contempo il movimento delle acque, come a un qualche cosa di utile al sistema. Così come del resto l’azione di rifugio che l’invadente ludwigia offre ai nostri bei pesci.

Che forse stiamo di nuovo sbagliando le relazioni di causa ed effetto e non sia la sparizione del canneto e il suo progressivo interramento uno dei principali motivi di pericolo per le ninfee e le specie nostrane tutte?